Origini
(Siamo grati ad Angelo Malinconico per avere messo a disposizione il capitolo introduttivo di “Il gioco della sabbia. La ricerca infinibile” (Astrolabio, 2021) scritto con Nicola Malorni, a cui rimandiamo per una lettura integrale).
Le origini
A Dora Maria Kalff (1904-1990) si deve l’intuizione delle notevoli possibilità espressive e terapeutiche del Gioco della Sabbia, nonché la prima sistematizzazione teorica entro la cornice junghiana.

Allieva di C.G. Jung, fu lei ad avviare, già agli albori degli anni ‘60 del secolo scorso, le prime ricerche nell’ambito dell’applicazione del Gioco della Sabbia alla psicoterapia analitica del bambino. Nel 1962 fece le sue prime comunicazioni al secondo Congresso di Psicologia Analitica sui risultati ottenuti con bambini e adolescenti e nel 1966 scrisse il suo unico volume, Il Gioco della Sabbia e la sua azione terpeutica sulla psiche (OS, 1974). Nel 1985 fondò la International Society of Sand Play Therapy, con l’intento di standardizzare un metodo terapeutico e di promuovere la ricerca nel campo.
Nel 1955, in occasione di un Congresso di psichiatria tenutosi presso l’Istituto Jung, la Kalff ebbe modo di ascoltare, tra i relatori, Margaret Lowenfeld.

Pediatra innovativa e studiosa di psicologia dell’età evolutiva, la Lowenfeld presentò l’esperienza dell’Institute of Child Psychology di Londra, ove da oltre vent’anni si faceva ampio ricorso al gioco nel trattamento terapeutico dei bambini.

“I bambini pensano con le mani”, soleva dire, ovvero a partire dalle loro esperienze sensoriali […] di conseguenza, l’interesse della Lowenfeld si rivolse agli aspetti multidimensionali della comunicazione non-verbale. L’ispirazione che la guidò all’uso della sabbia trovò origine nel ricordo di un libro della sua infanzia, Floor Games di H.G. Wells, nel quale l’autore raccolse i giochi di fantasia condivisi con i propri figli sul pavimento di casa. […] Le sessioni di gioco, descritte nel libro, potevano durare giorni interi: il pavimento, accuratamente delimitato, ospitava luoghi ed epoche storiche, arricchiti da narrazioni di fantasia, che affioravano dal variegato materiale di gioco. […]

La Lowenfeld riconobbe ben presto la potenzialità dell’uso di piccoli giocattoli come mezzo di espressione di pensieri ed emozioni profondi, preverbali e iniziò, così, a collezionare materiale eterogeneo tra cui perline, bastoncini di legno, scatole di fiammiferi, semi, pezzi di carta e cartoncino colorato, piccoli giocattoli, che soleva conservare in una stanza, soprannominata dai bambini “il Mondo”.
Furono i piccoli giocatori stessi a palesare interesse per la nuova e spontanea attività che consentiva loro di creare immagini, utilizzando il materiale a disposizione, in un piccolo contenitore contenente sabbia. La Lowenfeld fu, in tal modo, ispirata a introdurre stabilmente dei recipienti di zinco, contenenti sabbia, nella stanza di gioco.

Individuò così, quella che denominò “Tecnica del Mondo”, “un accattivante mezzo di espressione, il quale permetteva, sia al terapeuta che alla persona che eseguiva il gioco, di comunicare e condividere l’esperienza interiore interpretativamente”. […]
Secondo la pediatra britannica, l’esperienza emotiva era vissuta più in relazione agli oggetti del gioco e al contesto che lo ospitava che alla persona del terapeuta.


Dora Kalff, affascinata dalle immagini delle “scatole delle meraviglie” prodotte dai piccoli pazienti dell’Institute of Child Psychology e presentate dalla pediatra londinese al congresso del 1955, decise di recarsi a Londra per un periodo di apprendistato. […] L’approccio che maturò ben presto la Kalff fu quello di riconoscere nel Gioco della Sabbia una modalità terapeutica che permettesse l’espressione e la manifestazione del mondo intrapsichico e di quello archetipico al contempo, oltre a connettere con la realtà quotidianamente vissuta. Plasmate nella sabbia, le rappresentazioni collegate a tali dimensioni e livelli psichici interagiscono nello “spazio libero e protetto” creato dal terapeuta: il processo psichico, cui la tecnica imprime il moto, si palesa, sul piano simbolico, attraverso la comparsa di immagini di riconciliazione e pienezza, il rivelarsi del simbolismo del Sé, il ristabilirsi della connessione vitale tra Io e Sé.
Al di là dell’apparente carattere estemporaneo e discontinuo delle scene rappresentate, Dora Kalff si rese conto che i contenuti delle sabbie si manifestavano in forma processuale. […] I primi risultati ottenuti dall’applicazione del metodo e dalla ricerca, vennero comunicati in occasione del 2° Congresso di Psicologia Analitica del 1962.

Dora Kalff applicò il Gioco alla terapia dei disturbi nevrotici e psicosomatici dell’infanzia. Il lavoro con i bambini le offrì l’occasione di sperimentare le potenzialità trasformative della sabbia anche con l’adulto, filone di ricerca e di applicazione sistematizzato successivamente da Paolo Aite: ella proponeva, ai genitori che le domandavano in cosa consistesse il suo metodo, di comporre essi stessi delle scene nella sabbiera e di fare esperienza di un processo che, in altro modo, sarebbe risultato difficile da comprendere. […]
Dal 1978 in poi, un piccolo gruppo di terapeuti provenienti da diversi Paesi iniziò a radunarsi nella sua casa di Zollikon durante l’estate, avviando con la Kalff un percorso di supervisione. Nel 1985, lo stesso gruppo costituirà l’International Society for Sandplay Therapy (ISST).
Il prolifico confronto tra i diversi terapeuti che applicavano il Gioco valicò presto i confini svizzeri. La Kalff si trovò a viaggiare, quindi, negli Stati Uniti, in Giappone, in Inghilterra, in Germania, in Italia. Sembrava che il Gioco della Sabbia rispondesse a un bisogno piuttosto diffuso, comune a terapeuti di ogni parte del mondo, i quali cercavano un metodo complementare all’approccio verbale tradizionale che facilitasse un’espressione della psiche più bilanciata e integrata. […].
In Italia, Dora Kalff tenne il primo congresso e una serie di successivi seminari presso il reparto di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Bambin Gesù, ove un primo gruppo di analisti e allievi analisti iniziò a utilizzare il Gioco della Sabbia con i piccoli degenti.
Nel dicembre del 1987, in occasione di uno dei seminari di Dora Kalff a Roma, si tenne la prima assemblea dell’AISPT, l’Associazione Italiana per la Sandplay Therapy, costituita l’anno precedente a Bacchereto, Firenze.
Negli stessi anni, parallelamente, alcuni analisti iniziarono a riunirsi intorno a Paolo Aite, per poi dare vita nel 1998 al LAI.
Paolo Aite e Livia Crozzoli incontrarono Dora Kalff a Zollikon nel 1968, in occasione del Congresso junghiano Internazionale di Zurigo. Sotto la sua guida intrapresero il lavoro di supervisione sui propri casi clinici, preceduto da un’esperienza personale con il GdS .[…]

Nel ricordo di Paolo Aite:
Quando l’andai a trovare per la prima volta, su indicazione di Dora Bernhard, rimasi molto colpito, a cominciare dalla sua casa, in cui aveva vissuto anche Goethe. Era una casa piena di magia e di spazi evocativi, con le scansie piene di oggetti e i vassoi con la sabbia. In quella occasione mi fece vedere le scene di gioco, in prevalenza di bambini, ma anche di alcuni adulti che si erano rivolti a lei per vivere e conoscere l’esperienza. Mi resi conto (fu un autentico colpo di fulmine!) che quello che avevo visto nei bambini si manifestava anche nelle scene di gioco degli adulti. Questa fu per me, che lavoravo da qualche anno come analista di adulti, l’esperienza più intensa. Nell’atteggiamento d’ascolto vissuto da Dora Kalff era fondamentale la piena apertura all’altro, alla manifestazione archetipica del Sé, inteso come processo numinoso integrativo spontaneo di autoguarigione della psiche, in quello che lei definì lo “spazio libero e protetto”. […]
Paolo Aite maturò, nel tempo, un personale punto di vista, avendo sentito da subito “che c’era una svalutazione preconcetta dell’uso della parola, ritenuta dalla Kalff sempre e solo razionalizzante ed esplicativa”. Il lavoro di ricerca e la riflessione clinica di Paolo Aite sono orientati nella direzione dell’integrazione di gioco e analisi verbale entro il più ampio contenitore del processo analitico.

l GdS prevede l’utilizzo di una scatola di zinco, ferro, legno o alluminio con un fondale blu, le cui dimensioni, suggerite dalla Lowenfeld (57x72x7 cm), sono standardizzate affinché si adattino al campo visivo di una persona posta a mezzo metro di distanza. Vengono messe a disposizione del giocatore una o più sabbiere a scelta, un contenitore d’acqua e una varietà di oggetti di piccole dimensioni, raffiguranti elementi di ogni specie vivente, creature mitiche o appartenenti al mondo della fantasia, oltreché elementi architettonici, materiale da costruzione, divisori e connettori ed altro materiale non strutturato, con cui si invita il bambino a costruire una scena all’interno della sabbiera.
La sabbia è un materiale naturale, plastico e malleabile, capace di dare forma a messaggi che non troverebbero un linguaggio che li metta in comune con l’altro se non attraverso il gesto. […]
Il Sé dirige il processo
[…] Dora Kalff, studiando le rappresentazioni dei suoi pazienti, si accorse che queste seguivano delle sequenze simboliche regolari che ripercorrevano le tappe dello sviluppo psichico teorizzate da Erich Neumann.

La prima sabbia aveva un valore diagnostico e prognostico in quanto era la rappresentazione più vicina alla coscienza che esprimeva, in forma abbastanza realistica, le difficoltà del soggetto. Nelle successive rappresentazioni, il paziente entrava in livelli inconsci più profondi che si manifestavano in immagini caotiche e disorganizzate. Fino a giungere al momento, centrale nella terapia, in cui il paziente riusciva ad entrare in contatto con l’archetipo del Sé e a manifestarlo nelle sabbie. […]
In questo processo psicodinamico, potevano emergere parti scisse e distruttive della personalità, ma anche le risorse necessarie allo sviluppo. […] Alla base, vi è l’ipotesi di un Sé junghiano che racchiude la possibilità di realizzazione di sé e che, ricontattato attraverso il Gioco della Sabbia, può guidare autonomamente l’individuo nel suo percorso spontaneo di integrazione e di guarigione. In altre parole, la Terapia del Gioco della Sabbia permette, da un lato, di evocare le molteplici sfaccettature archetipiche della psiche e di organizzarle in un insieme più integr; dall’altro, offre l’opportunità di ripristinare, attraverso il contatto con le immagini archetipiche, all’interno della relazione analitica, un processo psicodinamico guidato dall’archetipo del Sé, riconducibile al processo di individuazione junghiano, cui si erano frapposti ostacoli nel corso dello sviluppo.
Senso della cura e ruolo del terapeuta
[…] Il fondamento della relazione analitica, secondo la Kalff, è la qualità della presenza del terapeuta che, facendosi custode della dynamis inscritta nel processo simbolico, dovrebbe trasmettere al paziente un vissuto di totale accettazione e attenzione verso le potenzialità interiori non ancora sviluppate; la diade condivide la singolare esperienza emotiva della partecipazione sincronistica all’evento simbolico. […] Nel setting che include il Gioco della Sabbia la totalità corporea viene esperita dando espressione ai contenuti psichici attraverso il corpo, il toccare, la materialità stessa della sabbia, saggiando, al contempo, il limite: “la limitatezza del vassoio è una condizione indispensabile perché il contatto tra lo ed inconscio venga protetto e possa strutturarsi in un prodotto assimilabile dal paziente e decifrabile dal terapeuta”.
ll modello di Paolo Aite e il LAI
Nella prospettiva di quanto elaborato da Paolo Aite (negli anni condiviso e per alcuni versi ampliato dai suoi allievi, afferenti al LAI), le immagini prodotte dalle sabbie e le parole, espresse all’interno della relazione, vengono considerate come due momenti diversi di un unico processo di simbolizzazione degli affetti vissuti nel corso dell’analisi. […] Il processo del rendersi visibile è connesso alla necessità psichica di raffigurare. Tale necessità rivendica nell’azione di gioco una via tutta umana di accesso all’esperienza emotiva.
L’azione delle mani seguite dallo sguardo sulla materia è un atto originario nell’esperienza umana. L’uomo, tramite la propria azione sulla materia e l’oggetto, ha costruito da sempre non solo il suo adattamento al mondo, ma ha sentito la necessità di esprimere emozioni, angosce e aspirazioni vitali. Lo testimoniano sia le pietre lavorate per scopi utili alla sopravvivenza, come le armi per difendersi o gli oggetti di uso domestico ritrovati. Anche le pitture rupestri e le opere di scultura giunte fino a noi dalla preistoria, indicano la tensione a elaborare le proprie emozioni tramite la materia.
La possibilità di regredire al gesto attraverso l’esperienza ludica produce uno “smarrimento potenzialmente fecondo” attraverso territori psichici prima inabitabili perché indicibili. Il gesto, dunque, attiene al processo del rendersi visibile, un condensato simbolico in forma di azione, di atto mani-sguardo. È altro rispetto all’agito, da intendersi come scarica pulsionale/energetica che, al contrario, bypassa la strada del simbolo, sottraendosi alla possibilità di un contatto con le dinamiche profonde e ad un’autentica condivisione. Il gesto, invece, illumina, scandagliando fondali ancora linaccessibili; raggiunge, laddove la parola si infrange; soccorre, plasmando in immagine percepibile l’informe inimmaginabile. […]
Secondo questa prospettiva, a differenza del modello kalffiano, i contenuti espressi nelle sabbie dovranno necessariamente essere integrati attraverso la parola. Il terapeuta non avrà solo il compito di stimolare e contenere l’evento simbolico, ma dovrà anche favorire il passaggio da una rappresentazione preverbale degli affetti a una rappresentazione verbale. La parola verrà scelta con cura, introdotta inizialmente in forma metaforica e in riferimento agli elementi della scena. […]
Paolo Aite ha utilizzato il Gioco della Sabbia, quindi, approfondendo il livello di interconnessione tra immagine e parola in analisi. È stato evidenziato un rapporto biunivoco tra questi due livelli: una scena può stimolare l’utilizzo di parole trasformative in grado di apportare nuovi elementi all’analisi; viceversa, la comunicazione verbale può stimolare la costruzione di una rappresentazione simbolica significativa. Sono stati identificati alcuni segni clinici che testimoniano la formazione di immagini e parole nuove, non difensive, che aprono uno spiraglio verso la trasformazione: un ricordo improvviso, fantasie o sogni significativi che emergono a seguito di un’immagine. Questi diversi livelli sembrerebbero partecipare alla definizione dell’esperienza trasformativa. Naturalmente non tutti gli analizzandi possono arrivare alla parola compiuta. Rimane certamente quell’insaturo che l’immagine ha evidenziato, e che solo attraverso l’immagine continua a lavorare dentro.
Dora Kalff non ha lasciato una formulazione teorica completa: le sue idee sono presentate principalmente attraverso il materiale clinico e la discussione di simboli in relazione al processo psicologico; né ha espressamente stabilito limiti alla pratica del Gioco della Sabbia, fuorché in forma di cautela. Richiede, infatti, al terapeuta che si avvicini alla pratica, di aver avuto una profonda esperienza personale con il Gioco, come autentico paziente di un terapeuta qualificato, nonché un esteso periodo di attenta supervisione. “Qualsiasi cosa di meno sarebbe irresponsabile”.
A questa visione aderisce totalmente Paolo Aite e il gruppo LAI. La diffusione della clinica del Gioco della Sabbia a livello mondiale ha favorito il fiorire della ricerca e della riflessione teorica.